Questa frase, così intensa e profonda, tratta dal libro “Parla, mia paura” di Simona Vinci, mi ha colpita sin da subito. Credo che rappresenti la sintesi di una relazione terapeutica, vera, autentica , il significato di un vero incontro. E’ questo quello che dovrebbe avvenire quando le persone entrano in uno studio di psicoterapia, è attraverso la relazione terapeutica che avviene il cambiamento, che la paura, l’angoscia, la sofferenza prendono forma e danno vita alla nostra nuova storia.
La relazione terapeutica è un concetto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. I dati di ricerca hanno ripetutamente dimostrato come l’alleanza terapeutica sia un potente fattore predittivo dell’esito del trattamento psicoterapeutico. Essa rappresenta infatti il fattore terapeutico specifico con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento, configurandosi così come un nucleo concettuale e clinico di estrema rilevanza. (fonte stateofmind)
Se il paziente non si fida, non può nemmeno affidarsi. Senza la fiducia di base è impossibile impostare qualunque alleanza ed è impossibile prendersi cura delle persone che chiedono aiuto. Un’esperienza relazionale costruttiva con il terapeuta diventa così un elemento costitutivo del trattamento; l’alleanza, pertanto, non andrebbe considerata un requisito, ma l’essenza stessa del processo.
L’incontro tra sconosciuti che si fidano e si affidano dove l’alleanza diventa un fattore predittivo e curativo della terapia.
Infatti, perché si verifichi il cambiamento terapeutico, il paziente deve non solo diventare consapevole di aspetti di sé che fino ad allora non erano tali, ma deve imparare a riconoscere e comprendere i propri stati d’animo, ad entrare in contatto con le proprie emozioni e con quelle degli altri e questo può avvenire solo all’interno di una dimensione relazionale, attraverso l’esperienza del rapporto terapeuta-paziente. Lungo questo cammino sono inevitabili periodiche rotture (o fratture) dell’alleanza terapeutica; può cioè capitare che il paziente, ad un certo punto del percorso, metta in discussione il lavoro fatto fino a quel momento o il rapporto con il terapeuta.
Queste incrinature non vanno però considerate solo come un ostacolo alla relazione e alla terapia, ma possono acquistare un importante significato se vengono elaborate, se diventano cioè oggetto di lavoro comune. Possono fornire spunti di riflessione di grande interesse e valore per la terapia; la loro risoluzione può rafforzare il legame e porre le basi per la costruzione di una nuova alleanza rinnovata.
(fonte http://www.consultoriopsicologicoeumenos.it)
La relazione terapeutica diviene di conseguenza l’essenza stessa di questo lavoro in cui è coinvolto non solo il paziente, ma il terapeuta stesso che attraverso la relazione reale può guardare alla persona nella sua interezza ed umanità, a scapito della tentazione di racchiudere la persona in categorie nosografiche.
Il terapeuta relazionale è consapevole del proprio processo e come questo influisce sul rapporto e sul suo paziente/cliente, rimarrà ricettivo ad imparare di più sul suo inconscio, sui suoi processi con attenzione allo svolgimento della relazione in corso, sapendo di essere cambiato da ogni incontro.
A volte, come afferma Bateson, è la “relazione che cura” attraverso l’empatia, la reciprocità e l’attaccamento a vantaggio di “uno spazio terapeutico che offre a paziente e terapeuta un ambiente dove possono trovano spazio la curiosità, l’incertezza e il conflitto”.
Concludo con una sottolineatura importante della reciprocità dello scambio e della crescita personale dentro la relazione terapeutica con le parole di Mara Selvini Palazzoli:
“Noi come psicoterapeuti, siamo pagati perché la nostra preparazione, i nostri studi, i nostri abbonamenti, il nostro ambulatorio, costano. Ma ciò che scambiamo, sul piano dell’incontro, con i nostri pazienti, è impagabile e ineffabile. Né ben si sa chi dei due debba essere riconoscente nel senso tradizionale della parola. Forse entrambi, forse né l’uno né l’altro.”